Coloro che fanno parte della cultura Hip Hop e che ogni giorno tentano di portarla avanti con la loro musica, chiamano questa sfida quotidiana con il nome di “Rap Game”. Eh sì, questo genere prende la forma di una gara, una sorta di “guerra” alla “Modern Warfare”, uno dei videogame più amati del momento. Gli MC fanno di tutto per affinare le loro liriche in modo da risultare primi nella corsa verso il podio, dove li aspetta la corona del “King Del Rap”. E in tutti questi anni ne abbiamo visti molti di artisti, più o meno apprezzati, farsi spazio tra la folla di rapper ed elevarsi a icone, creando l’illusione per qualche secondo che fossero loro i padroni della scena. Purtroppo non è così. C’è un ragazzo, pallido, proveniente dalla periferia di Detroit, che, in questa gara verso la gloria, involontariamente si è trovato ad arrivare primo, doppiare gli altri e ritornarsene a casa con in mano la suddetta corona. Sto parlando di Eminem. Un esserino alto poco più di 1 metro e 70, bianco, pallido, magrolino, all’epoca che si è presentato al mondo, biondo platino: uno che non è né carne né pesce nell’Hip Hop insomma. Non era nero, non veniva né dalla West Coast ( il re lì era Tupac ), né dalla East Coast ( dove c’erano i fedeli di Biggie ), ma dal centro, dove stelle del Rap non ce n’erano. Anzi. Detroit era la fabbrica dei sogni che aveva ormai chiuso i battenti da tempo. Se volevi qualcosa facevi meglio a volartene a New York. Ovviamente era povero, ma non era così “messo male” come lo erano i suoi colleghi più illustri dediti allo spaccio e alle sparatorie. Lui era uno sfigato. Eppure… eppure lo sfigato è oggi la stella numero uno del firmamento della musica. Lo sfigato oggi, nell’era digitale, lui che di computer e social network ne riconosce solo il nome, è l’artista più amato su Facebook: con quasi 70 milioni di “mi piace”, la sua pagina è quella con più fan esistente sulla piattaforma, prima di artisti del calibro di Michael Jackson o di star come Justin Bieber ( e Em non fa certo uscire un album all’anno come Rihanna). Un riconoscimento non da poco se si pensa quanto conti nella nostra vita oggi quel sito. La gente lo ama; ma non solo la gente comune. E innegabile che il Rap ami Eminem allo stesso modo in cui lui lo ama, se non di più. Il tributo più grande viene dalla scena: Lil Wayne, ad esempio, uno dei rapper più amati e prolifici di oggi, ha più volte espresso la sua gioia nel collaborare con colui che ritiene essere uno dei migliori, tanto che questo piacere si è concretizzato in ben due collaborazioni, senza contare “Forever”, la hit americana in cui Marshall si trova a rappare non solo con Weezy ma anche con Kanye e Drake, tra i nomi più grandi della scena. Ogni singolo rapper sa che avere Eminem sulla traccia significa successo assicurato. Ma Em è l’antistar per eccellenza: noto per il suo carattere chiuso e introverso nei confronti dello show biz, difficilmente si concede a featuring con la stessa facilità con cui lo fanno i suoi colleghi, quasi per dire “Se non è per fare musica migliore, ma per soldi, lasciamo stare, a me non interessa”. Questo suo comportamento però non gli ha impedito di ottenere il doppio di ciò a cui tutti gli altri potevano aspirare: Eminem nella sua carriera ha venduto più di 86 milioni di dischi in tutto il mondo, finendo per essere eletto dalla prestigiosa “Billboard” come “Artist Of The Decade”, ovvero artista che dal 1999 al 2009 ha venduto più dischi nel panorama e nella storia della musica mondiale. Cifre esorbitanti, se pensiamo che a registrarle è stato un rapper, per di più bianco. Probabilmente se questa fosse una storia e ce la raccontassero, noi non ci crederemmo. Nessun rapper, neanche il tanto amato e osannato Jay-Z, è riuscito nell’impresa di batterlo, nonostante quest’ultimo, grazie ai suoi progetti collaterali e alla bella mogliettina ex fidanzatina d’America Beyoncè, sia più ricco e abbia più pubblicità a disposizione. Eminem no. Non ha una moglie famosa per far parlare i giornali di gossip, non ha marchi vari a suo nome, non si imbarca in imprese di business estremo. Ha solo la sua musica. E gli basta e avanza; più cerca di fuggire allo star system e alle sue regole, alla fama e ai suoi bagliori, più sembra che il successo si quadruplichi, si moltiplichi. Naturale viene alla mente ricordare quel lontano, ma neanche tanto, 2002 in cui 8 Mile, film in cui Marshall recitava da protagonista una storia su misura, ricevette la nomination all’Oscar: Eminem vinse la statuetta, per “la miglior canzone originale di un film” con “Lose Yourself”, la quale fu la prima canzone rap della storia ad ottenere tale riconoscimento. Nonostante questa impresa fosse di dimensioni colossali, Marshall non le diede troppo peso, rifiutandosi di cantare alla cerimonia la canzone vincitrice perchè in versione censurata, e non presentandosi neanche a ritirare il premio. Solo qualcuno come lui poteva farlo; mi vedo già un Kanye West sul palco degli Oscar a ringraziare tutti quelli che lo hanno sostenuto, ma soprattutto se stesso per il buon lavoro svolto. Eminem no. Nonostante i tantissimi, troppi da elencare, premi elargitigli da Mtv, Billboard e compagnia bella, lui non si è mai convinto abbastanza di essere una star e come tale di meritare tutte quelle luci, facendo passare così in sordina i suoi riconoscimenti: sul palco sempre poche parole, solo per ringraziare le stesse solite poche persone e i fan, con un tono tenero, quasi imbarazzato. Ed è proprio con i suoi supporter che Eminem risulta più in confidenza: non li insulta, ma non gli lecca neanche il culo, dicendo in continuazione che li ama quando sa che è solo un modo finto per ingraziarseli, e lui non è capace di fingere, non sa cosa vuol dire. Sa però cosa vuol dire essere il fan, ma non riesce neanche a capire la febbre che prende i suoi ammiratori, quelli più estremi, perché lui sente di essere una persona reale, allo stesso livello degli altri, e sa che nessuno lo conosce così bene da potergli dire “morirei per te”. Lui morirebbe per sua figlia, non per uno sconosciuto. E’ proprio questa riflessione che lo ha portato a scrivere “Stan”, forse il suo brano di maggior successo, in cui scardina i canoni dell’Hip Hop, e si addentra in quel mondo ancora inesplorato che gli consentirà di essere sempre originale nelle tematiche trattate. Una serie di lettere ipoteticamente scritte da un fan ossessivo, che raccontano una triste storia di disagio psicologico, una storia che Eminem imbastisce quasi fosse un vero scrittore e in cui, alla fine, risponde direttamente, parlando al ragazzo ossessionato dalla figura del rapper come un fratello più grande parlerebbe a quello più piccolo, con comprensione, affetto, ma soprattutto onestà. Ed è l’onestà che rende Marshall speciale nell’Hip Hop. Niente “io sono il migliore”, “io spacco tutto”, “io ho più soldi, più donne, più macchine, più tutto” di te; no, cose superate, tematiche forzate, lui preferisce essere vero e buttare fuori quello che sente dentro realmente a costo di risultare ai machi del “gioco” il solito sfigato: “Sometimes I think there’s nothin to live for, I almost break down and cry”cantava in un brano contenuto nel “The Eminem Show” dedicato a sua figlia dal titolo “Hailie’s Song”: qualche volta penso che non c’è niente per cui vivere, per poco non crollo e piango. “My insecurities could eat me alive”, le mie insicurezza potrebbero mangiarmi vivo, continua nello stesso. Ogni pezzo di Eminem trasuda di realtà, di verità, di onestà verso un pubblico che non è quello che vuole vedere la criminalità ostentata nel rap e il machismo assoluti, ma quello che sa cosa vuol dire avere una bambina e impazzire perché non si hanno i mezzi per crescerla. Questa però non deve essere occasione per specularci sopra: parlare di sua figlia è stato un passaggio già intrapreso, un momento di sfogo totale già ampiamente espresso, perciò, mi dispiace Nas, sei tra i migliori e ti rispetto, ma non posso fare una collaborazione con te nel tuo nuovo brano “Daughters”, sarebbe figo, ma forzato. Ecco un altro esempio di come nonostante la scena si inchini ai suo piedi, lui voglia rimanere leale a se stesso, sempre: questa è la dimostrazione che, da “The Eminem Show” a oggi, lui non sia lontanamente cambiato. Certo oggi è un po’ meno violento e impulsivo, è più maturo, e assomiglia più a uno della sua età che ad un eterno ragazzino, ma lo Shady dentro di lui, il fuoco che lo anima, non è mutato. Sembra che Marshall abbia trovato finalmente un equilibrio che gli permetta di essere finalmente felice e di godersi questo trono in silenzio, senza sbandierarlo, ( perché solo chi si illude di possederlo sbatte il proprio tesoro in faccia a tutti gli altri, per paura che non sia così, i superiori invece sorridono silenziosamente), e perché no, che gli lasci anche il gusto di creare una mega hit con Rihanna, tanto per vedere quanto grande possa essere l’esplosione di questa bomba a mano. Per farlo però bisogna parlare d’amore, argomento banale: ed è proprio qui che il genio di Slim Shady dimostra che il suo è puro talento, e non solo fortuna, scrivendo un testo che parla di violenze domestiche come mai nessuno le aveva trattate. Parla di quell’amore passionale, che brucia, che fa male, e proprio per questo che ci fa sentire così vivi, raccontato nel modo in cui solo lui sa fare: “Life is no Nintendo Game”, la vita non è un gioco della Nintendo, è una frase contenuta nel brano che rende l’idea di quanto non scontato esso sia.
Già Marshall, la vita, come l’amore, ma anche il Rap, non è un gioco. E’ molto di più. E’ qualcosa che ha un potere superiore che noi non possiamo prevedere o controllare, ma di cui possiamo solo leggerne le istruzioni per l’uso e averne la capacità di metterle in pratica e utilizzarle al meglio. Tu sembri averne imparato a memoria l’utilizzo, tanto da essere riuscito a prenderne le redini in mano. E allora corri un'altra volta verso la meta, sarà già la quinta volta che li hai doppiati gli altri. Tanto la tua corona è ancora lì al suo posto e nessuno potrà mai togliertela.
*Written by: Fede_Shady